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Continuano le aggressioni agli operatori sanitari. Le nostre dichiarazioni su Il Fatto Quotidiano

Continuano le aggressioni agli operatori sanitari. Le nostre dichiarazioni su Il Fatto Quotidiano

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By uls on 6 Gennaio 2022 Area Stampa, News
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Sono anni che denunciamo l’inaccettabile situazione di sicurezza negli Ospedali, nelle corsie dei reparti, nei pronto soccorso. Ad aggravare il tutto ha contribuito la pandemia da Covid. Non riaprire gli Ospedali chiusi in passato, non aumentare i posti letto e, soprattutto, non fare concorsi per assumere operatori sanitari non risolverà il problema. Serve un cambio di rotta deciso, senza condizionali. Medici e Infermieri, insieme al restante personale, sono stanchi di svuotare l’oceano con la cannuccia. Si aggiunga che i pazienti sono esasperati e vivono purtroppo il proprio stato di malattia senza la dignità dell’accesso alle cure uguale per tutti. O forse ci dovrà scappare il morto?
Le nostre dichiarazioni su Il Fatto Quotidiano:

Carenza di organico, aumento dei pazienti (causa Covid) e posti letto ridotti intasano – ancora – il pronto soccorso e sfiniscono – di nuovo – gli operatori sanitari. Che raccontano scene non nuove, ma tratteggiate da una tinta emergenziale più accesa: “Conosco una dottoressa che stava per essere strangolata da una paziente, l’ha salvata un collega”, spiega Antonino Gentile, infermiere di Pronto soccorso nel Lazio (Ostia) e sindacalista Uls, Unione Lavoratori Sanità. “Mi dicono: appena mi alzo da questa barella ti meno“. E ancora, la collega Anna Rita Amato: “Il Covid ha tolto o limitato la possibilità di visita, e i parenti chiamano in reparto 24 ore su 24. Urlano: ‘So che faccia hai perché mio padre ti ha descritta. Prima o poi dovrai uscire di lì’”.
I racconti degli infermieri – Circa la metà delle aggressioni al personale sanitario, dice l’Inail, è rivolta agli infermieri. Se ne contano 5mila ogni anno, ovvero 13/14 al giorno. E nel 58 per cento dei casi si è trattato di un’aggressione fisica. “Una parente mi lanciò addosso una bottiglia d’acqua, in vetro. Non accettava che il tempo delle visite fosse terminato”, ricorda Anna Rita Amato, infermiera di reparto a Roma. “A novembre 2020 invece abbiamo avuto un decesso di un ricoverato 95enne. A fine giornata io e la mia collega siamo state avvisate dagli addetti alle pulizie: i parenti ci stavano aspettando all’uscita. Erano riusciti a entrare nell’atrio dell’ospedale e prendevano a calci le panchine. Mi avevano riconosciuto dalle finestre: secondo loro, lo avevamo ammazzato noi. Ed eravamo colpevoli di non averglielo fatto vedere, causa restrizioni da Covid”. Era il pieno della seconda ondata. “Ci siamo cambiate in reparto e siamo uscite da un altro percorso. Da allora ho sempre paura quando c’è un decesso“. A innescare il conflitto spesso è la combinazione fra posti letto occupati, poco personale e pressione aumentata dalla pandemia. “Se una persona aspetta 10 ore su una barella di 4 centimetri è inevitabile che si generi nervosismo”, commenta Antonino Gentile, infermiere al Pronto soccorso di Ostia. “Il contesto è quello dell’esasperazione“. Per disinnescare il conflitto ci sono alcune tecniche: “Usiamo le cosiddette frasi di scarico, per tranquillizzare. Non guardiamo negli occhi, perché in caso di rabbia può essere controproducente. Cerchiamo di ripetere sempre le ultime parole del paziente, così capisce che lo stiamo seguendo”. Ma Gentile vorrebbe anche rafforzare la sicurezza e inserire all’interno degli ospedali dei presidi di polizia, da mettere in affiancamento alle guardie giurate, il cui compito è sorvegliare i beni immobili.

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